martedì 21 aprile 2009

I SASSI - Recensione - Intervista

::04.03.2008 - FONTE - a cura di Christian Mascheroni

Due vite che si incontrano, due pietre lanciate nel cuore di praga. Il destino che gioca le sue carte. Sul tavolo di un romanzo.
Sacha Naspini: la levigatezza della scrittura


Questo romanzo non ve lo racconterò. Non vi dirò di cosa parla. Perché ci sono libri che necessitano di una spiegazione, o di una frase di rito per attirare il lettore a comprarli. Ma “I sassi” (Edizioni Il Foglio), nuova opera di Sacha Naspini, scrittore e musicista nato a Grosseto, ha una voce così dirompente che vorrei lasciarla trasparire dalle parole stesse dell’autore, senza anticipare nulla. Se non il fatto che dietro all’immaginifico titolo, si cela una storia caleidoscopica, quanto l’anima dei suoi personaggi. Che l’ambientazione, Praga, ha il colore delle vene dove scorre l’inchiostro di un libro avvincente e mai titubante. Profondo come gli abissi della mente, liquido come le lacrime di una scrittura che tocca i sentimenti più diversi, denso come il sangue che scorre, zampilla, e che viene assorbito dalle microstorie e dai colpi di scena della vicenda. Ora però sto zitto. Preferisco mettermi a sedere, ad un tavolo, e girare le carte; domande, risposte. Per capire e conoscere chi è Sacha chi è il suo romanzo.
Ciao Sacha, benvenuto. “I sassi” sono un romanzo. Sono perché riesci a costruire una storia con pietre diverse: generi letterari che si fondono, narratori che si alternano, punti di vista sfaccettati. Partiamo dal genere: come definiresti il tuo romanzo e come vorresti non fosse definito?
Ciao Christian, intanto grazie per l’opportunità che mi dai. Venendo a “I sassi” e al genere di appartenenza, sarei tentato di dire che si tratta di un romanzo di narrativa pura, ma che contenendo “colori” individuabili nel noir (ci sono pistole, morti ammazzati eccetera) viene appunto definito noir, ma solo per semplici motivi d’“identificazione”. Premetto che personalmente non amo granché questo genere, sono stanco di detective che fumano quintali si sigarette, s’imbottiscono di psicofarmaci e hanno la vita a rotoli. Anzi, mi correggo: sono stufo di come questo genere venga ancora affrontato in Italia. La narrativa noir americana, per esempio, offre ben altri panorami. Ovvio che da noi ci sono eccezioni, per fortuna. Potendo scegliere, mi piacerebbe che “I sassi” non fosse definito solo un noir.
Il tuo romanzo può essere letto come il gioco delle carte che diventa strumento di confessione, ovvero un alternarsi di episodi dai colori diversi, che vanno dal rosso del cuore al nero della morte. Ma entrano in gioco anche le sfumature. Tra l’amore e la morte che cosa pervade tutta la storia?
Ne “I sassi” il tema predominate è la vendetta. Credo che la vendetta sia una delle facoltà più importanti dell’uomo. La centralità di questo tema non prevede solo una lettura negativa del termine; è anche uno strumento di espiazione per esempio, nei confronti di sé stessi e della propria vita – non ultimo del futuro che ognuno di noi cerca di guadagnarsi. “Vendicarsi” nei confronti del passato è uno strumento di rivalsa che appartiene a tutti, ed è importante. Per crescere, dare un nome alle cose, dipanare (seppure di poco) la nebbia del domani. Ne “I sassi” questo tema è affrontato nell’accezione più estrema e stronza del termine. Apparentemente tutta la vicenda gira attorno a un pezzo d’antiquariato che provoca morti, tradimenti, fughe; ma in realtà il senso della vendetta che ho cercato di narrare riguarda nello specifico la dignità dei personaggi, e la spasmodica sete di riavere indietro quel che si è perso. In definitiva l’anima.
I personaggi del tuo romanzo sono l’antitesi dello stereotipo, anche se, quasi a sfidare ogni genere letterario, hai scelto i più classici, come la prostituta, il malavitoso etc... sei partito quindi da una sfida con la letteratura oppure è stata una naturale necessità per la trama che avevi in mente?
In fase di stesura pensavo alla storia come alla ricomposizione di un mosaico (per restare in tema “sassi”) distrutto, di cui ho provato a raccogliere, mano a mano, pagina dopo pagina, tutti i frammenti, ricollocandoli al posto giusto. Non è stato facile. La prima bozza l’ho tirata giù in una decina di giorni, ed è stato come vivere sul filo del rasoio: ogni scelta narrativa rischiava di compromettere l’intera architettura della storia, che non volevo definire. Questo significava mettere a repentaglio l’intero impianto narrativo da una riga all’altra. Ma personalmente odio quando uno scrittore “si giustifica” pensando che il lettore potrebbe fraintendere o uscire dalla narrazione. Quando succede lo si avverte chiaramente, e ne va della “credibilità” del libro. Anche la scelta stilistica e i movimenti verbali sui tempi contribuivano, in fase di stesura, a confondermi le idee, ma ho continuato fino in fondo, portando avanti la vicenda servendomi di un gioco di “inquadrature”, flashback e repentine virate sulla soggettiva dei personaggi. Una tecnica “cinematografica”, come ha indicato giustamente Francesca Lenzi in una recente critica del libro. La scelta dei due personaggi-chiave della storia, poi, apparentemente non offriva grandi panorami d’azione (due classici), e anche questo complicava un bel po’ le cose, per non scadere nella banalità. Sì, in qualche modo scrivere “I sassi” è stata anche una “sfida”, per tutti questi motivi. Ma più che con la letteratura, con me stesso. Come sempre, del resto.
Un’altra peculiarità del tuo romanzo è che non ci sono buoni e cattivi, anche se ciò è inevitabile in una storia come la tua. La crudeltà di alcune pagine non è altro che un lato di ognuno di noi, che in alcuni personaggi del libro diventa annientamento umano, in altre lo spettro di un dolore profondo, di una ferita aperta in un animo sensibile…
Ne “I sassi” ho voluto portare all’eccesso le cavità più oscure dell’animo umano – o almeno ci ho provato. Ma importante era una cosa: che si percepisse il lato sensibile di ogni personaggio, in modo da non far passare la crudeltà e l’annientamento (come giustamente dici tu) come gratuita, o a semplice scopo d’intrattenimento. Il sottofondo oscuro di una persona può avere strapiombi infiniti, dove qualcuno può perdere l’identità delle cose e di se stesso. Tutto il libro, in fondo, è un’assidua ricerca (non solo materiale) di appartenenza.
“I sassi” è un palcoscenico, quando i due protagonisti si raccontano e si confidano, ed è uno schermo cinematografico quando, nei flash back e nei momenti clue del libro, le scene sono impattanti, si rincorrono, tolgono il fiato. E’ stato difficile rendere simbiotici questi due aspetti?
Come dicevo, il rischio maggiore era far cadere il castello di carte da un momento all’altro, e seppure avessi ben chiaro dove andare a parare dovevo cesellare ogni passaggio con “sgambetti” e piccole “strategie letterarie” che non impallassero la vicenda. La chiacchierata tra Eva e il misterioso sconosciuto si alterna nel libro con uno strano gioco di carte, e così si intervalla il resoconto delle loro vite, fino a quel momento, in cui si trovano seduti al tavolo di un bar di Praga. Come due distanti parallele che cozzano all’improvviso, inaspettatamente. Diciamo che via via che la narrazione incedeva, mi lasciavo “sorprendere” anch’io. È un metodo di scrittura per me essenziale.
Lo sfondo è quello di Praga, ma è un luogo metaforico, perché per tutti noi c’è una città malinconica e notturna che ospita le nostre solitudini. Qual è la tua Praga personale?
L’idea de “I sassi” ha cominciato a girarmi in testa dopo il mio primo viaggio a Praga, festeggiai lì i miei ventinove anni. Rientrato in Italia iniziai la stesura del libro: sono un estremo sostenitore di Parigi (dove spero di trasferirmi presto), ma quella città mi abbagliò tanto che decisi di ambientare la storia lì. Lo feci da subito, ero ancora pervaso da quelle atmosfere e tentai di riportarle nel libro, per dargli quella “magia”. Ci sono città che ti s’installano dentro, apparentemente senza motivo. Il senso di appartenenza (non a caso) che provo ogni volta che vado a Praga mi toglie sempre il fiato. Ma per rispondere alla tua domanda posso dire questo: la mia Praga personale è un luogo che mi ospita quotidianamente, e che non saprei definire. Di certo c’entra la pagina bianca, che se ne sta là, così linda, mi tenta in continuazione di metterci sopra qualcosa.
Parlando della tua genesi come scrittore, quali sono stati i tuoi primi passi? A quando risale la prima gioia della pubblicazione?
Già a sei, sette anni mi divertivo a scrivere storie, filastrocche, cose così. Il primo riconoscimento “ufficiale” è stato a tredici anni, quando mi piazzai terzo a un concorso di poesia indetto dalle scuole. Poi è venuto il liceo, la musica e tutto il resto, per anni ho abbandonato quei miei quaderni, anche se in realtà di tanto in tanto tornavo a ficcarci il naso dentro. E cominciavo a buttare giù delle storie, che puntualmente abbandonavo al primo muro. Ho iniziato ad affrontare la cosa con perseveranza circa sei anni fa, a venticinque anni, decidendo un giorno di dare sfogo una volta per tutte a quella smania che di tanto in tanto mi coglieva. Il risultato fu un romanzo, “Quel maledetto filo invisibile”, che sta bene dove sta, sul fondo del mio cassetto. Poi sono iniziati i primi racconti, ho vinto vari concorsi letterari, sono stato inserito in diverse antologie e riviste. Aggiudicandomi la segnalazione al premio “Licurgo Cappelletti” indetto dalla casa editrice Il foglio ho conosciuto nel 2005 Gordiano Lupi, il mio attuale editore.
Tu hai già pubblicato un romanzo, “L’ingrato”, uscito due anni fa circa. Rispetto a questo libro d’esordio, quali sono le tue aspettative? E’ cambiato il tuo modo di percepire “l’essere uno scrittore”
Il mio esordio letterario è del marzo 2006, per la casa editrice Effequ. “L’ingrato” uscì che mi trovavo in Inghilterra per un ciclo di studi sulla lingua. È un romanzo a cui tengo tantissimo, e non solo perché si tratta della mia prima pubblicazione ufficiale: ci ho buttato dentro un bel pezzo d’anima. Dopo “L’ingrato” è venuto il tascabile “Il risultato”, per Magnetica Edizioni, nel novembre dello stesso anno. Di fronte ad ogni nuovo progetto editoriale mi pongo in maniera diversa, in termini di stile, impianto di narrazione eccetera. La scrittura è anche ricerca, e personalmente non mi sentirei corretto nei miei confronti e nei confronti di chi mi legge se per esempio dessi alle stampe qualcosa di “già fatto”. Certo, questo può rappresentare un rischio, perché un lettore, magari leggendo “I sassi”, potrebbe nutrire false aspettative se successivamente pensasse di acquistare una copia de L’ingrato, che è totalmente diverso per espressione, genere e così via. Ma mi annoierei ad affrontare due progetti letterari simili, per me sarebbe deleterio, e la scrittura ne risentirebbe. E poi quando un buon libro è un buon libro, basta a sé. Ovviamente, per quanto riguarda i miei lavori, non devo essere io a giudicare.
Tu, oltre a scrivere romanzi e racconti, scrivi testi e musica per le canzoni del tuo gruppo, i Vaderrando (www.vaderrando.it), di cui sei anche la voce. Che rapporto hai con la musica? Che differenza emozionale sussiste fra l’essere musicista ed essere scrittore?
Tra musica e scrittura ci sono meno differenze di quel che si possa pensare. Sono due “mondi vicini”, almeno per quanto mi riguarda. Scrivere pezzi per i Vaderrando per me è semplicemente un altro modo di scrivere, tutto qui. Mi piace la piccola magia che si crea nella parola, quando viene dilatata da un fondo musicale. Per ovvi motivi è un ambiente “letterario” angusto, ma che offre molto al non detto.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Cosa stai scrivendo?
Al momento sto seguendo la promozione de “I sassi”, con la collaborazione dell’ufficio stampa de Il foglio stiamo facendo un ottimo lavoro, specie per quanto riguarda la diffusione del libro negli ambienti della critica; l’agenzia letteraria T&Z si sta occupando di promuovere il libro per una eventuale traduzione all’estero. Inoltre ho un nuovo romanzo in presentazione presso alcune case editrici italiane, “Povero Cristo”, per me una sorta di esperimento, linguaggio underground e tutto il resto. Al momento sono nel bel mezzo della stesura di un nuovo lavoro, titolo provvisorio “L’effetto Kirlian”, tra thriller e narrativa. Non ultimo, sono orgoglioso di far parte del collettivo di scrittori UBV, Underground Book Village (http://www.myspace.com/underground_book_village). A breve sarà in libreria la nostra prima fatica: “Le 7 vite di Dalila e Achille”, ovvero sette istantanee sul tema del destino. I compagni di viaggio sono: Alessandro Cascio, Frank Solitario, Walter Serra, Vincenzo Trama, Emiliano Maramonte e Francesco Dell’Olio. Credo in UBV, è un progetto che manca nel panorama editoriale italiano. Nell’attuale progetto sono comprese delle splendide tavole che ritraggono gli “Scheletri” di Maurizio Ravera, grande artista della FotoGrafia. Penso che UBV scuoterà più di un’anima (pensa che in quarta di copertina abbiamo un commento dell’esimio Benedetto XVI, che da sempre ci supporta e viene spesso – in borghese, beninteso – ai concerti miei e del buon Cascio). Quello tra Dalila e Achille è forse lo stesso incontro, che si verifica però in sette dimensioni diverse. Il libro conterrà anche delle “bonus tracks” (mie, del Solitario e di Cascio) che sviseranno ulteriormente sul tema. Le grafiche sono state affidate ai ragazzi di Tribe (http://www.myspace.com/tribeart), che hanno fatto un lavoro egregio. In rete sono già presenti interviste, estratti, richieste d’amore, minacce di morte… “Le 7 vite di Dalila e Achille” non sarà solo un’antologia, ma un manifesto. E costerà solo 11 euro.
Un’ultima domanda: che tipo di sasso sei e che tipo di sasso vorresti diventare per essere raccolto dal tuo lettore?
Sono un sasso sfaldato, ho perso schegge in giro, un po’ come tutti, e la grandine mi trasforma continuamente. Per i miei lettori? Boh… La risposta “fighetta” sarebbe: vorrei diventare uno di quei sassolini fastidiosi, che ti s’infilano nella scarpa all’improvviso. E forse è così.

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